Il conflitto siriano come specchio delle attuali relazioni internazionali

Gianluca Eramo e Carlo Giovannone*, New York, 22 agosto 2012

 
Sin dall’inverno del 2010 un vento di cambiamento, volto a stabilire regimi democratici e rispettosi della volonta’ popolare, sta soffiando forte sulle sponde meridionali del Mediterraneo. Dopo decenni di regimi autoritari e dittatoriali, in diversi paesi arabi uomini e donne, organizzati e non, hanno iniziato a lottare per liberarsi dal giogo di regimi cleptocratici e autoritari che per lungo tempo hanno imposto alle popolazioni civili repressione privazioni durissime.
 
La rivoluzione ha avuto il suo inizio in Tunisia e si e’ rapidamente propagata ad Egitto, Yemen e Bahrain; in Libia e’ stato necessario, previa autorizzazione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, l’intervento militare della NATO e di alcuni alleati arabi per porre al regime di Geddafi ed a un quarantennio di terrore.
 
Sulla scia di questi avvenimenti, nel marzo 2011 la popolazione civile siriana ha dato il via ad una serie di manifestazioni pacifiche per chiedere la fine del regime degli al-Assad, che sono state confrontate dalla violenta repressione armata messa da parte dell’esercito e dalle milizie fedeli al regime, sordo alle necessità di cambiamento del proprio popolo.  
 
Da ormai 18 mesi giungono dalla Siria notizie tragiche, spesso correlate da immagini raccapriccianti che non lasciano nessun dubbio a chi le osserva: crimini contro l’umanità e crimini di guerra continuano ad essere perpetrati con crescente frequenza. Secondo il rapporto piu’ recente della Commissione di Inchiesta internazionale delle Nazioni Unite (CoI), pubblicato il 15 agosto, a oggi si contano tra 17 e 22 mila morti, altri 26 mila sono stati inghiottiti dalla rete di centri di detenzione gestiti dall’esercito e dalle milizie del regime e 1 milione e mezzo di persone hanno dovuto abbandonare le proprie case a causa delle violenze e i combattimenti. La CoI ha confermato che forze governative e i gruppi paramilitari vicini al regime, conosciuti come Shabbiha,hanno commesso crimini contro l’umanita’, crimini di guerra e stabilito un regime di terrore attraverso omicidi, tortura, arresti arbitrari, stupri e attachi indiscriminati contro la popolazione civile. Tali livelli di violenza sono stati anche documentati dai coraggiosi attivisti siriani che continuano a raccogliere e far circolare su internet foto e video.
 
La CoI ha anche riportato, sempre nello stesso rapporto, che crimini di guerra, inclusi tortura ed esecuzioni arbitrarie, sono stati perpretati dalle forze di opposizione ma ha tenuto a precisare che queste violazioni, seppur gravi, non sono minimamente paragonabili per gravita’, frequenza e scala a quelle commesse dalle forze governative.
 
Questi gravi avvenimenti possono essere interpretati come un preoccupante segnale che tra le forze armate dell’opposizione si stia facendo largo l’idea che ad assumere futuri ruoli di leader nella Siria liberata sarà chi sul campo di battaglia avrà sparso più sangue ed e’ importante sottolineare come alcuni dei principali comandanti delle forze d’opposizione hanno immediatamente preso le distanze e condannato tali comportamenti criminali adottanto un codice di condotta militare e regole di ingaggio volti ad evitare che tali incidenti si ripetano in futuro, a differenza del presidente al-Assad per quanto riguarda le forze al suo comando. Secondo questa carta, le forse di opposizione dichiarano di essere pronti “a rispettare i diritti umani che siano in accordo con i nostri principi legali, i nostri tolleranti principi religiosi e le leggi internazionali che regolano tali diritti”. Il documento, stilato in 11 punti, include l’impegno a trattare ogni persona catturata come prigioniero di guerra.
 
Nel frattempo sul tavolo della diplomazia internazionale non sembra essere rimasto più niente: al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite la Russia e la Cina hanno estensivamente utilizzato il loro potere di veto per bloccare ogni iniziativa che potesse avviare un processo di transizione politica rispettoso della volonta’ di cambiamento espressa dalla popolazione siriana. Neppure il cosiddetto piano Annan è riuscito a fermare gli scontri nelle strade siriane e con l’uscita di scena dello stesso Annan, dimissionario sin dall’inizio di agosto, anche questa unica carta a disposizione della comunita’ internazionale sembra destinata al fallimento. Sara’ compito del nuovo Inviato Speciale delle Nazioni Unite, l’algerino Lakhdar Brahimi di provare a creare le condizioni per una intesa internazionale che possa mettere fine al massacro siriano.
 
Come suggerito da Kofi Annan nel giorno delle sue dimissioni e’ necessaria una forte unione di intenti della comunità internazionale per risolvere la crisi siriana. Fino ad ora questa è venuta a mancare a causa di calcoli geopolitici e di interessi economici e politici che la Russia e i suoi alleati alle Nazioni Unite ha anteposto ai veri bisogni della popolazione siriana, la quale sta pagando a caro prezzo questa empasse. Lo stesso regime si sta avvantaggiando dei tentennamenti della comunità internazionale nel rispondere efficacemente alla crisi, continuando gli attacchi indiscriminati in varie province del paese. Da ultimo, piu’ la guerra e la violenza continua piu’ sara’ facile per gruppi estremisti islamici di utilizzare il territorio siriano come vero e proprio campo di addestramento e di raccolta di pericolosi armamenti. E’ risaputo infatti che la Siria è uno dei paesi che negli anni ha accumulato un vasto arsenale di armi chimiche e batteriologiche.
 
Continuano a essere molteplici le speculazioni sul futuro dello stato siriano e sul presidente Assad. Secondo il re Abdullah di Giordania, Bashar al-Assad potrebbe essere presto tentato, una volta perso il controllo sulla totalità del territorio nazionale, di creare un’enclave in Siria per i membri della comunità alawita, di cui fa parte la sua famiglia. Tale scenario rischierebbe di acuire gli scontri settari in tutta la regione, aumentando le rivendicazioni d’indipendenza da parte delle varie minoranze presenti nei diversi paesi mediorientali.
 
Onde evitare l’estendersi del conflitto oltre i confini siriani e al fine di porre limite alla crisi umanitaria in atto nel paese, la comunità internazionale deve necessariamente produrre un piano alternativo a quelli sin’ora proposti, e falliti. La posta in gioco è alta e le conseguenze che una dissoluzione dello stato siriano potrebbe creare, sullo stile di ciò che è avvenuto in Afghanistan negli anni ’90, sono chiare a tutti. Ciò sarebbe particolarmente grave visto la particolare posizione geografica della Siria, situata nel cuore del Medio Oriente, incastrata tra Israele, Iraq e Libano, e con l’Iran non molto lontano dai propri confini nazionali.
 
Un possibile approccio nuovo alla crisi siriana dovrebbe basarsi sull’assunto, innegabile da parte dell’intera communita’ internazionale e sui cui potrebbe essere possibile costruire una base di consenso anche al livello di Consiglio di Sicurezza dell’ONU, che le continue violazioni dei diritti umani, gli innumerevoli crimini di guerra e crimini contro l’umanità devono cessare e che e’ urgente e necessario iniziare un processo rigoroso e indipendente di individuazione dei responsabili di tali atti, se si vuole offrire una soluzione pacifica e condivisa della crisi siriana. Si pone dunque la necessita’ di stabilire un’inchiesta indipendente sotto il mandato del Consiglio di Sicurezza ONU al fine di poter assicurare alla giustizia gli autori dei crimini più efferati.
 
Al posto di semplici osservatori l’ONU dovrebbe farsi carico di inviare in Siria investigatori a cui sia garantita piena libertà di movimento su tutto il territorio siriano al fine di poter indagare e raccogliere elementi sui crimini commessi da entrambi gli schieramenti, forze lealiste e ribelli. I membri di questa commissione investigativa dell’ONU potrebbero essere selezionati dai 15 membri del Consiglio di Sicurezza e affiancati da esperti espressione di tutte le forze siriane. La fondamentale imparzialità dell’indagine dovrebbe essere suggellata dal rapporto conclusivo della missione redatto direttamente dalla commissione investigativa. Una tale soluzione, apertamente indipendente e quindi non tacciabile di essere espressione del solo Occidente, potrebbe convincere Russia e Cina a dare il proprio consenso. Questi ultimi potrebbero anche essere spinti dalla necessità di evitare una possibile escalation di violenza di matrice islamista in Siria, la quale potrebbe facilmente riaccendere gli animi dei gruppi indipendentisti islamici presenti sia in Russia (in Cecenia, Inguscezia e Daghestan) sia in Cina (nello Sinkiang).
 
L’allontanamento dal potere di Bashar al-Assad sembra essere solo una questione di tempo, ma per garantire in Siria una transizione pacifica di lungo termine è necessario che i maggiori leader politici internazionali prendano quanto prima decisioni coraggiose e decise. Per evitare il definitivo collasso si dovranno infatti raggiungere compromessi su ogni fronte, sia a livello internazionale sia a livello locale, scendendo a patti con le varie minoranze etniche, religiose e politiche presenti sul territorio. La convinzione è che solo grazie a rapide e convincenti iniziative messe in atto da una comunità internazionale finalmente coesa si potranno allontanare le nubi nere che continuano ad addensarsi sui cieli siriani.
 
*Gianluca Eramo è il Coordinatore del Programma per la Democrazia nella Regione MENA, e capo dell'ufficio di New York di NPSG. Carlo Giovannone è consulente di NPSG nell'ambito del progetto Siria.