Siria: la violenza non può essere riconosciuta come una via legittima al potere

Di Alison Smith, Gianluca Eramo e Greta Barbone*, 20 Febbraio 2013

 
Tra circa un mese il mondo commemorerà un tragico e triste anniversario. Da dicembre 2010, la Primavera araba che ha preso vita in Tunisia si è diffusa nel Medio Oriente ed in Nord Africa, rovesciando dittatori e regimi corrotti che resistevano da decenni. A seguito di ciò, nel marzo 2011, la popolazione siriana ha tentato pacificamente e attraverso manifestazioni non violente e raduni di riconquistare i diritti fondamentali, civili e politici e la propria libertà. La repressione che ha fatto seguito, scatenata sulla popolazione della Siria da un regime tirannico, è senza precedenti e ha raggiunto un livello di violenza che raramente è stato registrato nella regione. Il fallimento della comunità internazionale nel porre fine al conflitto dimostra l'urgente necessità di mettere a fuoco la sua strategia in materia di giustizia e di responsabilità e di sostenere la società civile all'interno della Siria nei suoi sforzi per affrontare le sfide di un post-Assad di transizione sulla base del rispetto dei diritti umani, dei valori democratici e dello Stato di diritto.
 
In base alla documentazione più recente rilasciata da parte dell'Ufficio dell'Alto Commissario per i diritti umani, all'inizio di gennaio 2013, 60 mila persone sono state uccise a causa del conflitto in corso in Siria. Diverse migliaia di uomini, donne e bambini sono sparitinel corso degli ultimi 24 mesi in prigioni e camere di tortura di Al-Assad e dei suoi seguaci. Più di 2 milioni e mezzo di rifugiati hanno dovuto abbandonare le loro case e il loro paese in circostanze terribili e vivono attualmente in condizioni di miseria nei paesi confinanti o da sfollati con poche speranze di ritrovare dignità e qualità della vita umana a breve termine. Sebbene alcuni dei numeri diffusi recentemente dai vari organi delle Nazioni Unite siano ancora oggetto di discussione, in particolare il numero di vittime effettive, è senza dubbio che il conflitto in atto in Siria è un gravissimo disastro umanitario che ha già provocato la perdita di migliaia di vite e la distruzione di splendidi patrimoni culturali come la Cittadella di Aleppo e il mercato coperto.Inoltre, il conflitto sta alimentando tensioni regionali che rischiano quotidianamente di travolgere il delicato equilibrio del Medio Oriente in un pericoloso conflitto internazionale, come dimostra la presenza del sisetma anti-missile Patriots della NATO in Turchia ed i contrasti tra le milizie pro e anti Assad nel Nord del Libano.
Negli ultimi due anni, la comunità internazionale ha cercato di trovare una soluzione alla crisi siriana, con scarsi risultati e un crescente senso di impotenza. Il 29 gennaio di quest'anno, il segretario generale dell'ONU Ban Ki-moon, rivolgendosi a una conferenza di finanziatori in Kuwait, ha detto che "la situazione in Siria è catastrofica e sta peggiorando di giorno in giorno". Nello stesso giorno, nel suo rapporto al Consiglio di sicurezza dell'ONU, l’inviato speciale di ONU e Lega Araba in Siria ha riferito al Consiglio di Sicurezza che la Siria “si sta distruggendo poco a poco”. Lakdar Brahimi ha anche detto che il processo di pace in cui è stato impegnato è in un vicolo cieco e "non può essere implementato così com’è".
 
Finora tutte le iniziative diplomatiche avviate dalla comunità internazionale, dal piano Annan al tentativo del “quartetto” guidato dall’Egitto, non sono riuscite né a riportare la pace in Siria né ad avviare un processo di transizione politica che avrebbe, dopo 40 anni di dittatura, portato istituzioni democratiche e aperte al popolo siriano. Il sostegno incessantemente fornito al presidente Bashar al-Assad e il suo regime omicida da parte di Russia e Cina, con il loro potere di veto all'interno del Consiglio di sicurezza dell'ONU,  ha fornito una copertura politica e diplomatica che i paesi occidentali non sono riusciti a sfidare con successo. In effetti, le troppe questioni diplomatiche e geopolitiche che la crisi siriana pone alla comunità internazionale rappresentano la sfida più grande e più difficile che europei e americani si trovano ad affrontare in Medio Oriente.Ogni sforzo per risolvere il conflitto è fallito soprattutto per l'approccio "top-down", che è stato adottato finora e che, lungi dal favorire una soluzione pacifica della crisi, ha invece portato alla immobilità politica e diplomatica, come chiaramente dimostra la gestione della crisi da parte degli attuale rappresentante speciale di Lega Araba e Nazioni Unite. Brahimi, erroneamente, si augura che se gli Stati Uniti e la Russia convergano su una strategia concordata, il Consiglio di Sicurezza si schieri dalla loro parte, aprendo così le porte alla possibilità di una risoluzione del Consiglio di Sicurezza giuridicamente vincolante che potrebbe costringere le fazioni in guerra a fermare il conflitto. Questa strategia continuerà soltanto a prolungare le sofferenze della popolazione civile e non fermerà la volontà del regime di Assad di lottare fino all'ultimo uomo, preferendo la distruzione della Siria alla perdita di potenza.
 
Le principali vittime di questa tragedia sono gli uomini e le donne in Siria che ogni giorno devono lottare per sopravvivere; le vittime principali sono la giustizia e la responsabilità per i crimini di guerra e crimini contro l'umanità che vengono commessi all'interno dei confini della Siria ogni giorno. Vi è la necessità di portare nuove idee al tavolo, infondere nuovo vigore al processo diplomatico e di orientare il discorso diplomatico sulla giustizia per le vittime e l’attribuzione delle responsabilità ai colpevoli. Queste dovrebbero essere la bandiera sotto cui la società civile ed i governi trovino un denominatore comune ed inizino a sviluppare un nuovo approccio, che procede dal basso verso l'alto, per disinnescare la guerra e iniziare a sviluppare quei principi e valori su cui la nuova, Siria democratica sarà edificata.
 
Ci sono molte persone che dicono che è prematuro parlare di responsabilità e che questo significherebbe solo impedire ad Assad di dimettersi ed incoraggiare i combattenti a lottare fino in fondo, ma restare fermi sulla questione della responsabilità è il modo migliore per raffreddare la violenza sul terreno ed incoraggiare i combattenti a rispettare le convenzioni internazionali ed il cosidetto diritto di guerra. La comunità internazionale nel complesso ed i singoli Stati devono dichiarare forte e chiaro che la questione della responsabilità non è solo un argomento sul tavolo, ma è anche parte integrante delle discussioni in corso al fine di fermare il conflitto ed elaborare soluzioni a lungo termine per la Siria.
 
A questo proposito, un importante sviluppo è rappresentato dalla lettera consegnata al Consiglio di sicurezza dell'ONU il 14 gennaio 2013 dalla Svizzera in rappresentanza di altri 57 paesi, tra cui 5 attuali membri, permanenti o a rotazione, del Consiglio di Sicurezza - Australia, Francia, Lussemburgo, Repubblica di Corea e Regno Unito - che richiede il deferimento della situazione siriana alla Corte Penale Internazionale (CPI).
 
Realisticamente, il deferimento alla CPI è ancora inverosimile e anche se il Consiglio di sicurezza, un giorno, prenderà tale decisione, sarà comunque un percorso difficile da seguire, con difficoltà diplomatiche e politiche da superare. In effetti, lo stesso deferimento non avrebbe un impatto positivo sul terreno se la stessa decisione non sarà supportata e sostenuta da parte degli Stati per assicurare una cooperazione duratura con la Corte a lungo termine, condizione che spesso non si è verificata nelle precedenti occasioni di deferimento da parte del Consiglio di Sicurezza, come evidenziato dalla situazione del Darfur/Sudan e della Libia. Se il Consiglio di Sicurezza decidesse di deferire la situazione in Siria alla CPI, la decisione dovrebbe avere un seguito. Non può essere soltanto un’iniziativa “deferisci e dimenticata” e non può essere considerata una soluzione autonoma per la Siria. La Corte è un organo giurisdizionale che assicura l’attribuzione delle responsabilità per i crimini più atroci e il rinvio della situazione in Siria alla Corte porterà un effetto positivo solo se parte di una strategia comune che considera la giustizia come una risposta adeguata al conflitto. Gli Stati membri devono essere pronti a sostenere ed eseguire il mandato generale della CPI nei paesi in cui opera, soprattutto in relazione alle vittime e alle comunità colpite. Gli Stati membri devono fornire alla Corte il necessario sostegno diplomatico e finanziario per condurre indagini e intraprendere il lavoro di sensibilizzazione con le vittime e le comunità colpite, attività per garantire il coinvolgimento delle vittime, riparazioni e la protezione di testimoni e vittime.
 
Sebbene sia certamente importante mantenere la pressione sui governi, per espandere il consenso sulla proposta svizzera, sarà ancora più importante per il futuro della Siria e per le organizzazioni nazionali ed internazionali della società civile impegnarsi immediatamente sulla giustizia di transizione e sui meccanismi di responsabilità. In effetti, la società civile in Siria può e deve già iniziare, in coordinamento con le forze siriane democratiche, a creare le condizioni per lo sviluppo di meccanismi di giustizia di transizione e di attribuzione delle responsabilità in quelle aree liberi dal controllo di Assad. La società civile al di fuori della Siria dovrebbe muoversi rapidamente per fornire l'adeguato e necessario supporto per sostenere la loro capacità nel gestire le sfide di questo processo, anche per quanto riguarda la difesa e la documentazione delle violazioni dei diritti umani che potrebbe poi servire come prova nel contesto di quesi meccanismi di attribuzione delle responsabilità, e per accrescere la consapevolezza tra i gruppi bersagliati. Sulla base dei risultati positivi ottenuti finora nelle sue iniziative in corso in Tunisia e Libia, Non c'è Pace Senza Giustizia è pronta e disposta a lavorare con il popolo siriano - concentrandosi in particolare sulle vittime e le comunità colpite, donne e giovani – per definire gli obiettivi in materia di giustizia di transizione e sul tipo di futuro, in base al tipo di principi e valori su cui fondare la nuova Siria. Infatti, il futuro della Siria non sarà determinato né dal superato approccio di Brahimi alla diplomazia, né dai giudici del L’Aja, ma sarà plasmato e modellato dai siriani.
 
La violenza non può essere riconosciuta come una via legittima per raggiungere  potere e influenza politica. Il circolo di impunità che sta devastando la Siria deve essere interrotto. Mentre tutti i nostri sforzi si concentrano su questo fine, bisogna anche volgere uno sguardo al futuro. Le nuove autorità post-transizione avranno la responsabilità principale di garantire che i diritti umani, i valori democratici e una visione condivisa della Siria crescano e si affermino. A tal fine, il contributo della società civile sarà un elemento cruciale per fornire le conoscenze tecniche, scientifiche e politiche e le competenze necessarie per elaborare un piano nazionale per la giustizia e la responsabilità e per stabilire meccanismi giuridici, giudiziari e non giudiziari per la transizione verso una Siria democratica.
 
*Alison Smith è Consigliere Legale e Direttore del programma di Giustizia Penale Internazionale di Non c’è Pace Senza Giustizia; Gianluca Eramo è Coordinatore del programma MENA di Non c’è Pace Senza Giustizia; Greta Barbone è Coordinatrice del Progetto Tunisia, distaccata a Al-Kawakibi Democracy Transition Centre (KADEM)