Di Alison Smith, consigliere legale di NPSG

 

Il 17 dicembre 2010, un unico atto di protesta contro il regime tirannico in Tunisia riecheggia tra centinaia di migliaia di persone in tutto il medio oriente e il nord africa, scatenando uno tsunami democratico che ha cambiato per sempre il corso della vita. Alla fine del 2010 nessuno avrebbe mai pensato che un tale immenso cambiamento sarebbe potuto succedere in tutta la regione in soli tre mesi. Il presidente della Tunisia, Ben Ali, se n’è andato. Il presidente dell’Egitto, Mubarak, anche lui se n’è andato. Le proteste si sono diffuse in Algeria, Bahrain e nello Yemen senza alcun segno di cedimento. In Libia, la popolazione si è rivolta a Gadhaffi dicendo “basta”. Ancor più sorprendentemente, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite è intervenuto rispondendo alla propria responsabilità per il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, rinviando la situazione della Libia alla Corte Penale Internazionale. Tutto è iniziato qui, in Tunisia, che sembrava dall’esterno un luogo piacevole e una bella destinazione turistica, ma la facciata copriva se non addirittura nascondeva in sé il volto della repressione, della corruzione di massa, di violazioni di diritti umani e di aspirazioni democratiche soffocate.

Due mesi dopo la rivoluzione e la partenza del presidente Ben Ali, Non c’è pace senza giustizia – No Peace Without Justice – si è recata in Tunisia per incontrare gli attori della società civile e del governo, per discutere le loro aspettative e speranze riguardo alla Corte Penale Internazionale  e alla giustizia di transizione più in generale. Una missione abbastanza semplice, come altre che conduciamo in altre parti del mondo regolarmente ma con una differenza sostanziale. Fino a soli tre mesi fa, in Tunisia, la società civile non esisteva ancora ufficialmente, né era in grado di potersi esprimere in pubblico. Esporsi alla luce del sole avrebbe significato il rischio della molestia, dell’ intimidazione, della detenzione e della tortura e anche peggio. A ragione, i protagonisti della società civile, fino al giorno della rivoluzione, si sono sempre nascosti nella penombra, spesso operando dall’estero e con la paura di mostrare i propri volti. Oggi questi volti cominciano a mostrarsi in pubblico, reclamando il proprio posto in una nuova Tunisia, consapevoli del fardello sulle loro spalle per la ricostruzione di una quella nuova Tunisia e per la necessità di farlo correttamente.

Attualmente a Tunis la vita sembra scorrere normale come ogni altra vibrante metropoli: le persone conducono regolarmente le proprie attività quotidiane, si intrattengono per un caffè in bistro dallo stile francese; i negozi sono pieni, la gente si concede una passeggiata mediterranea, e il traffico (anche se intenso) grossomodo rispetta le regole della strada, almeno quando arriva qualcuno nell’altra corsia. Ma sono necessari solo pochi passi in più per capire che, al di là dell’apparenza, le cose non sono così stabili come appaiono ad un primo fugace sguardo. Domina, tra una delle strade principali di Tunisi, il monolitico Ministero degli Interni, un infame labirinto di edifici, testimonianza del peggior regime dittatoriale di Ben Ali. Per i corridoi rieccheggiano molte voci e la radio riporta i discorsi sul destino di questo palazzo: c’è chi ipotizza l’uso dell’edificio per ospitare un Ministero diverso o chi, invece, vorrebbe trasformarlo in un museo in onore delle vittime del regime. Purtroppo è ancora troppo presto per parlare ma la sola vista dell’edificio ricorda alla Tunisia che ha ancora molto lavoro davanti a sé, non da ultimo a causa dei veicoli corazzati – che prima non si vedevano per nelle strade di Tunis – che circondano il Ministero e altri luoghi strategici per la città. Leggermente sconcertante, ma quando la rivoluzione é iniziata, l’esercito si é schierato dalla parte del popolo, mentre la polizia decisamente no e molti o sono stati espulsi o non si sono presentati al lavoro. Non c’é da preoccuparsi, mi hanno riferito, che in questo momento l’esercito e i soldati rivestano il ruolo dei “buoni”.

Come tutte le rivoluzioni nulla è semplice come sembra. Un amico e collega ha descritto la situazione attuale in Tunisia con le seguenti parole: “Pensavamo di avere una parvenza di democrazia, invece, per come stanno le cose oggi, in realtà avevamo una parvenza di Stato. Nulla funziona, bisogna rifare tutto da zero”. Questo è l’arduo compito che devono affrontare i nuovi leader tunisini, sia nel governo (e come farlo quando nessuno ha esperienza nell’essere all’opposizione?) sia nella società civile (e come farlo quando non c’è mai stata una società civile visibile per una generazione?). Tutto necessita di riforma: la sanità, l’istruzione, il settore della sicurezza, il settore elettorale, il sistema giudiziario, la corruzione, l’occupazione e la lista potrebbe continuare. Si tratta tuttavia non tanto di  ricontruire quanto di costruire dalle fondamenta in sù le strutture essenziali di cui uno stato ha bisogno per operare su una base giornaliera, nell’ambito di un sistema di principi democratici che limitano lo spazio di manovra dello stato in modo corretto e fanno si che lo stato lavori per i suoi cittadini e possa essere da questi chiamato a rispondere del proprio operato.

All’interno di tale contesto, la prima reazione potrebbe essere – e in alcuni salotti, particolarmente stranieri, é stata –  quella di voler iniziare prima a ricostruire la democrazia e le infrastrutture, e solo dopo, in un secondo momento, concentrarsi sulla creazione di un sistema di giustizia di transazione. Il popolo ha bisogno di uno Stato stabile, in grado di fornire servizi di base concreti, prima di iniziare a pensare a concetti astratti, quali quelli di giustizia e responsabilità. Tuttavia, il popolo tunisino la pensa diversamente al riguardo, in particolare la società civile che sta iniziando adesso a raggrupparsi e affermare la propria identità.Loro vedono la giustizia e la responsabilità per le violazioni passate come componenti essenziali e fondamentali per la ricostruzione di uno stato stabile, non come qualcosa che puo’ essere rinviato. Come per le altre riforme di cui c’é bisogno, affermano che siano necessarie adesso, sia per dimostrare una reale rottura con il passato, sia per essere sicuri che una nuova Tunisia venga ricostruita su una base solida costituita dal rispetto dello stato di diritto, che comprende la responsabilità dei leader, attuali e passati, verso il popolo. L’accertamento della responsabilità per gli eventi accaduti in questi ultimi mesi rappresenta sicuramente un buon punto di partenza ma é necessario estendere lo sguardo ai decenni passati, teatri di repressione e oppressione.

Esiste inoltre il pericolo che nell’ardore del voler rimuovere tutto ciò che è associato al vecchio regime dittatoriale, si possa creare una lacuna nei servizi di base e di governo. In Tunisia negli ultimi 30 anni, sono venuti a mancare un’attiva società civile e i partiti all’opposizione e ci sono state poche opportunità per coloro che sono rimasti in Tunisia, pur non essendo collegati al regime, di sviluppare competenze e l’esperienza necessaria a governare un paese. Coloro che facevano parte e perpetravano la repressione in passato devono essere deposti da posizioni di potere ad ogni costo, ma c’é anche bisogno di un insieme di esperienze per aiutare a guidare la Tunisia nel suo nuovo futuro. La giustizia di transizione pio’ aiutare a facilitare questo processo, cosi come puo’ contribuire positivamente nelle altri fasi necessarie perché si compia un processo di democratizzazione.

Inoltre, una delle cose che più stupisce, è il fatto che la Tunisia stia dimostrando un atteggiamento consapevole dell’importanza storica di ciò che sta accadendo, non solo per la Tunisia ma per l’intera regione. In centro, ci siamo ritrovati davanti all’ambasciata libica e al Ministero degli Interni: entrambi gli edifici sono circondati da filo spinato, i veicoli sono corazzati e gli uomini dell’esercito indossano l’uniforme. Proprio qui, ci sono dei tavoli sui marciapiedi ricoperti di cibo, coperte, carta igienica e altri elementi quotidiani essenziali. Questo é un punto di raccolta per i cittadini tunisini che si riuniscono e offrono donazioni alla popolazione della Libia, la cui rivoluzione democratica si sta rivelando essere molto più sanguinosa e devastante di qualsiasi altra nella regione. Le donazioni provengono da tutta la Tunisia, in particolare dalle zone più povere e rurali. La Croce Rossa ha chiesto alla gente di non continuare a fare donazioni: hanno raccolto troppo e in questo momento il problema non é raccogliere di più ma fare in modo che gli aiuti arrivino alla gente che ne ha bisogno in Libya.

La generosità e solidarietà del popolo tunisino, che arriva in un momento in cui la Tunisia potrebbe essere perdonata per dare la priorità ai propri problemi interni, sottolinea il carattere e la dimensione regionale di quanto accaduto. La popolazione è consapevole del proprio ruolo nella storia, così come è consapevole del fatto che i loro vicini e loro stessi stanno traendo forza dal coraggio di Mohamed Bouazizi e altri che come lui hanno iniziato la lotta contro l’oppressione che alla fine stanno vincendo. Sì, la riforma è necessaria in Tunisia per sfruttare al meglio le opportunità che possono portare alla costruzione di uno Stato fondato sui principi di democrazia e dei diritti umani; ma nel compiere questi sforzi – e particolarmente in qualsiasi tentativo di stabilire un processo di giustizia di transizione che assista quegli sforzi – noi, come la Tunisia, abbiamo il dovere di monitorare la regione e essere pronti a fare in modo che il castello di carte non crolli.