Tribunale per i Crimini Internazionali del Bangladesh: affinché la giustizia possa contare tramite l’equo processo.

Di Niccolò Figà-Talamanca e Nicola Giovannini*, Eurasia Review, 9 Novembre 2012

 
Le enormi atrocità commesse durante i nove mesi di conflitto nel 1971, dal quale il Bangladesh è emerso come stato indipendente, ancora tormentano il Bangladesh e gli sforzi per portare giustizia sono essenziali per permette al paese di andare avanti senza il pesante fardello dell’impunità. Le centinaia di migliaia di vittime e sopravvissuti meritano che giustizia sia fatta e sia fatta in maniera evidente. Come in ogni conflitto, entrambe le parti hanno subito sofferenza e perdita di vite umane senza senso. Tutti coloro che hanno sofferto durante il conflitto hanno il diritto di vedere che si compia giustizia attraverso un processo giudiziario indipendente ed imparziale.

Anche dopo 40 anni, il desiderio di giustizia è condiviso non solo dalle vittime delle atrocità ma dall’intero Bangladesh. L’instaurazione del Tribunale Penale Internazionale (TPI) è stata una promessa chiave che ha permesso alla Grande Alleanza guidata dalla “Bangladesh Awani League–BAL” di ricevere un ampio mandato popolare. Inoltre l’impegno del Bangladesh nei confronti della giustizia è stato riaffermato quando esso è divenuto nel 2010 il primo stato del Sud Est Asiatico ad aderire alla Corte Penale Internazionale.

Il Tribunale del Bangladesh, che ha iniziato il suo operato nel Marzo 2010, ha la missione epocale di chiudere questo traumatico capitolo e compensare lo storico fardello di atrocità che ha accompagnato il Bangladesh sin dalla sua nascita. Esso potrà portare a termine il proprio mandato solo consegnando a alla giustizia coloro che hanno ordinato e commesso atrocità su larga scala, fornendo riconoscimento e riparazione alle innumerevoli vittime e creando un’indiscutibile ed effettiva documentazione degli eventi che rispecchi le esperienze reali di tutte le comunità colpite.

L’obbligo e la responsabilità del TPI sono, tuttavia, non solo punire coloro la cui colpevolezza è stata provata oltre ogni ragionevole dubbio, ma anche fornire un equo processo che sia spiegato alle vittime e alla popolazione del Bangladesh, affinché essi possano comprendere e seguire i processi e avvertire il compimento della giustizia. Avendo espressamente escluso qualsiasi investigazione relativa agli ufficiali dell’esercito Pakistano, in gran parte considerati i maggiori responsabili dei crimini commessi e, avendo focalizzato le sue indagini sull’attuale leadership dei partiti d’opposizione per il ruolo da essi esercitato durante il conflitto, spetta al Tribunale dimostrare le sue abilità ed il suo desiderio di portare avanti processi in modo imparziale e rigorosamente aderente all’equo processo. 

Se il TPI dovesse fallire nell’applicare i più elevati standard internazionali nel perseguire i crimini sotto il diritto internazionale, anche nella sua veste di tribunale nazionale , fallirebbe allora nella sua missione epocale. Inoltre, un tale fallimento renderebbe inevitabile che un futuro governo neghi qualsiasi risultato del tribunale e promuova politiche revisioniste che glorificherebbero i perpetratori e che diffamerebbero le vittime. In particolare, l’applicazione della pena di morte sugli individui processati dal Tribunale garantirebbe virtualmente che il processo venga visto da oppositori e possibili sostenitori come un maldestro tentativo di eseguire una vendetta politica sulla leadership d’opposizione sottoforma di lotta contro l’impunità.

La continua non applicazione delle garanzie di equo processo incluse nella Costituzione del Bangladesh così come previste dalla Norma sui tribunali contro i Crimini internazionali del 1973 e la successiva modifica del 2009, scredita l’intero lavoro del Tribunale. I suoi sostenitori fanno notare che queste garanzie sono necessarie per occuparsi dei problemi relativi alla retroattività (la giurisprudenza internazionale consente una giurisdizione retroattiva per quanto riguarda i crimini internazionali). Ciononostante, il TPI ha espressamente rifiutato l’applicazione delle norme sull’equo processo nelle sue procedure, dando adito nella comunità internazionale a valide critiche non solo dai suoi oppositori ma anche da coloro che dovrebbero di diritto essere i suoi maggiori sostenitori.

Il fallimento del Bangladesh nell’occuparsi delle legittime preoccupazioni delle organizzazioni sui diritti umani, il cui mandato è quello di combattere l’impunità per i crimini contro l’umanità, di guerra e di genocidio, che hanno espresso inquietudine circa l’applicazione dell’equo processo, rafforza le richieste di coloro che sono determinati a riscrivere la storia negando i crimini. Perfino le sentenze ufficiali degli organi delle Nazioni Unite vengono ignorate: dopo più di un anno, il Bangladesh non ha ancora risposto ad una sentenza formale emessa il 3 ottobre 2011 dal Gruppo di Lavoro delle Nazioni Unite sulla detenzione arbitraria che descrive la custodia cautelare da parte del TPI di un leader del partito Nazionale del Bangladesh (Bangladesh National Party- BNP) e di cinque del “Jatiya Party” come “arbitraria” nonché in violazione dell’articolo 9 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo e dell’articolo 9 del Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici - di cui il Bangladesh è membro. Il peggior scenario possibile, secondo il quale il Tribunale contribuirebbe a trasformare in eroi coloro che dovrebbero essere puniti e che distruggerebbe le chance delle vittime di avere un riconoscimento duraturo delle loro sofferenze, si sta già avverando.

Il rispetto degli standard internazionali d’equo processo è essenziale per assicurare che il lavoro del Tribunale possa sostenere la prova del tempo ed evitare così che un futuro governo rigetti con facilità le sue azioni giudiziarie considerandole come un’ ingiusta, ampiamente condannabile e politicamente motivata, vendetta giuridica. In conclusione, il Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite dovrebbe attivare la sua procedura speciale per condurre una rivalutazione dei processi del TPI per crimini internazionali, fornendo così un’opportunità per il Bangladesh ed il Tribunale stesso di dimostrare la loro capacità e la volontà di condurre processi indipendenti, imparziali ed equi.
 

* Niccolò Figà-Talamanca è Segretario Generale di Non c’è Pace Senza Giustizia, Nicola Giovannini è presidente di “Droit au Droit” (Diritto al Diritto)